DANNO ON LINE E DIFFAMAZIONE DA FILE SHARING

Il caso

Una donna, utilizzando il programma di file sharing eMule, entra in condivisione di immagini pornografiche in cui il soggetto femminile assomiglia molto a una propria conoscente di 17 anni. Le indagini della Polizia Postale rilevano che la donna, una volta scaricate le foto da eMule, ha creato delle cartelle rubricate con il nome della diciassettenne e le ha rimesse in condivisione on line mediante eDonkey, altro programma di file sharing. Così operando, ha volontariamente diffuso le immagini compromettenti imputandole alla malcapitata ragazza. Alla diffusione si è aggiunta inoltre la “pubblicità” dell’esistenza di questo materiale on line eseguita mediante più sms inoltrati ad un’amica in cui si legge testualmente: «dobbiamo scrivere la sua storia e la mettiamo su internet tipo melissa p.». A seguito dell’istruttoria si è verificato che le foto erano state falsamente attribuite in quanto il soggetto femminile ritratto non era l’indicata diciassettenne.

Il Tribunale, come anche la Corte di Appello, non hanno avuto dubbi: si è trattato di diffamazione aggravata ex art. 595 c.p.. L’imputata ricorre in Cassazione eccependo la mancanza dell’elemento soggettivo come di solito avviene per il semplice file sharing. La Suprema Corte però rigetta il ricorso. In questo caso – osservano puntualmente gli Ermellini – la creazione di nuove cartelle di condivisione su eDonkey rinominate appositamente per imputare le immagini osée alla vittima prova chiaramente la consapevole volontà offensiva della donna (dolo) diretta a divulgare e diffondere i file lesivi.

In motivazione

«Certamente non è ravvisabile il reato di diffamazione per il solo motivo (e sulla base della sola prova) che i file siano procurati attraverso un programma di condivisione tipo eMule, essendo necessaria anche la prova di una volontà consapevole del soggetto diretta a divulgare o diffondere il file; nel caso di specie, però, tale prova è stata acquisita, giacchè (l’imputata) dopo aver completamente scaricato le immagini pornografiche in questione, le ha volontariamente inserite in cartelle contenenti i file destinati alla condivisione, perfino rinominando le immagini con specifici riferimenti alla ignara (vittima)».

La questione

La linea di demarcazione tra file sharing “buono” e file sharing “cattivo” in punto di lesioni della persona è la questione fondante della pronunzia in commento. Quali sono dunque le ipotesi in cui in concomitanza con l’uso del file sharing si perfeziona il reato di diffamazione?

Le soluzioni giuridiche

La soluzione giuridica sulla distinzione tra file sharing “buono” e file sharing “cattivo” si rileva in un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato.

Le ipotesi in cui in concomitanza con l’uso del file sharing si perfeziona il reato registrano l’esistenza di condotte umane intervenute consapevolmente sui materiali “piovuti” nelle cartelle di condivisione dell’utente. Spiega magistralmente questo orientamento degli Ermellini la Cass.pen., sez. fer., 7 agosto 2014, n. 46305 in materia di detenzione e diffusione di materiale pedopornografico a mezzo file sharing:

«non ignora la Corte la sua giurisprudenza secondo la quale, “ai fini della configurazione dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 600-ter c.p., dalla volontà di procurarsi e detenere file a contenuto pedopornografico non può ricavarsi automaticamente la presenza di un dolo diretto a diffonderli, che deve invece risultare da elementi precisi e inequivocabili tra i quali non può annoverarsi il semplice fatto che il soggetto abbia adoperato un programma di condivisione”. (…)Sussiste il dolo generico di diffondere, per via telematica, materiale pedopornografico nella condotta del navigatore in internet che (…) operi una selezione del materiale estratto per dare ad una parte di esso una specifica e personalizzata destinazione tramite la creazione di apposita cartella di condivisione; in tal caso, infatti, alle attività automaticamente compiute dal programma informatico si aggiungono operazioni di libera elezione dell’agente nella consapevole volontà di operare in ambito condiviso da altri utenti e, quindi, di contribuire anche di propria iniziativa alla diffusione di materiale pornografico minorile».

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I reati consumati nell’internet appartengono a condotte reali che a volte feriscono assai di più di un pugno negli occhi. In dinamiche lesive quali ad esempio la diffamazione on line o anche il cyberstalking le conseguenze dannose ricadono nella vita reale della vittima sotto forma di danno biologico (ove documentalmente provato con perizia medico-legale) e/o sotto forma di danno alla vita di relazione (provato con testimoni, con perizia sul danno psichico, con stringenti allegazioni). Il danno on line è una realtà divenuta ormai gravissima. Pensiamo agli adolescenti suicidi a causa delle condotte di cyberbullismo. Pensiamo ancora alle donne che insieme a moltitudini imprecisate di netizen si sono viste, loro malgrado, proiettate nel web dall’ex vendicativo come “amanti focose” in cerca di incontri.

Una campagna di sensibilizzazione giuridico-culturale sul “danno on line” avrebbe due ottimi risultati: le vittime potrebbero ottenere i denari per curarsi e i carnefici avrebbero l’ulteriore deterrente dell’esborso economico a loro carico.

Guida all’approfondimento